Ritagli

C. Delfrati. Ascoltare fa male?

Quando ci serve una sentenza categorica e inconfutabile abbiamo sempre a disposizione il libro dei detti di Confucio, veri o inventati per tagliar corto. Fra i tanti, uno può riguardare da vicino l’educazione musicale. Lo troviamo in diverse varianti: Se ascolto dimentico, se guardo capisco, se faccio imparo. Oppure: Se ascolto dimentico, se faccio ricordo, se vedo imparo. O addirittura: Se ascolto dimentico, se leggo ricordo. Chi le usa, nell’una o nell’altra forma, intende di solito ribadire uno dei comandamenti didattici più ovvi e ripetuti dal tempo di Comenio e di Cartesio, anche se spesso disattesi ancora oggi: no allo nozionismo sterile e passivo, sì alla conquista personale e operativa dei saperi. Piuttosto che al molto improbabile Confucio, basti leggere i nostri ben più concreti e sostanziosi Bruno Munari o Gianni Rodari. Ma una lettura sprovveduta della massima rischia di colpire proprio la musica, facendola apparire una materia dannosa e fuorviante del curricolo scolastico. Rileggiamo le varianti: quello che si ripete identico in tutte, e nell’immaginario profeta uno e multiforme, è il primo emistichio: se ascolto dimentico. Facile la deduzione allarmante: quello che sembra essenziale è guardare, toccare, leggere, contare… insomma quello che si è sempre fatto a scuola. Ascoltare invece fa male. A scorno non solo di quanti faticano nelle nostre scuole per avvicinare bambini e adolescenti ai tesori della musica, praticandola e ma pure ascoltandola. Ma anche a neutralizzare l’impegno con cui ogni educatore consapevole cerca di rimediare al sempre più frenetico ritmo della civiltà digitale, che, sempre più privilegiando la vista sull’udito, ci sta rendendo incapaci di ascoltare non solo la musica ma anche se stessi e gli altri. Qui come altrove, lasciamo perdere i profeti, che sanno solo combinare guai, e recuperiamo proprio dal buon senso il diritto dell’ascoltare a farsi barriera contro la crescente tirannide del vedere.

C. Delfrati. Testa piena o testa pensante?

Il sociologo Edgar Morin riprendeva dal suo connazionale Montaigne la domanda retorica: tra le due teste, meglio la seconda. Piuttosto che un’aula dove un maestro riempie di informazioni la testa dell’allievo, meglio l’aula dove l’allievo impara ad affrontare e risolvere per conto proprio i problemi dell’esistenza. Anche i problemi posti da uno spartito musicale. Chi non preferirebbe l’allievo che davanti a un passaggio complicato sa trovare nelle mani il modo di superarlo, piuttosto di chi anche di fronte a una piccola novità implora il soccorso del docente? Eppure l’idea che sia da preferire il secondo, ha fior di sostenitori. Il più blasonato affronta da par
suo la faccenda, quando raccomanda il suo modo di educare i bambini: “non si permetta loro di essere autonomi finché non abbiamo organizzato entro di essi, come in uno stato, una costituzione e, coltivando la loro parte migliore con la migliore nostra, non abbiamo insediato in loro un guardiano e governatore simile a noi. Allora soltanto possiamo lasciarlo libero”. Parola di Platone. E in un altro suo
libro: “La cosa più importante è che mai nessuno sia senza un capo, che sempre viva
con gli occhi a lui e da lui si faccia guidare anche nelle minime cose”. Guai ad agire in
proprio: “Dalla vita degli esseri umani bisogna strappare l’insubordinazione”. Se
Platone merita fra noi di essere ricordato, è perché ha saputo trasferire i suoi superbi
principi anche sul terreno umile dell’educazione musicale. O sì, “ai bambini sia pure permesso – scrive – di cantare, ma a una precisa condizione: che a decidere quale possa essere la musica degna sia il parere concorde di un consesso di canuti
sapienti”. Che sia ancora vivo lo spirito del filosofo in qualche aula dei nostri Conservatori?

C. Delfrati. Il lago e il ruscello

“Nel paese di Lilliput – esce sul palcoscenico a raccontare la disinvolta allieva – le sentinelle hanno scoperto, addormentato sulla riva del mare, un gigante alto come una montagna…”. Così comincia lo spettacolo che vedrà coinvolti alla fine dell’anno tutti gli allievi della scuola. Scuola di teatro? No, di musica. O meglio, una scuola di musica dove ciò che al saggio finale si ascolta non è solo il
risultato di un anno di studi condotti nel chiuso dell’aula, ma il primo ispiratore di uno spettacolo creato dagli allievi stessi. Il viaggio di Gulliver riscritto dagli allievi, e commentato dalle musiche inserite a mo’ di colonna sonora. Sono proprio le musiche studiate durante l’anno a offrire, con la
specifica carica espressiva che ognuna possiede, l’ispirazione allo spettacolo. Le stesse che in una scuola tradizionale sarebbero proposte al pubblico come classico saggio di fine anno: ma per così
dire “teatralizzate”. I docenti non hanno avuto bisogno di stravolgere la sequenza collaudata dei brani, siano pure i medesimi richiesti dal vecchio ordinamento degli studi, la Gavotta di Handel del principiante di flauto o la Sonata di Prokofiev del prossimo al diploma. Qui gli allievi imparano a far interagire i loro canonici pezzi con le necessità del copione che essi stessi vanno ideando. Così niente vieta che un medesimo brano possa anche venir ripetuto se il copione suggerisce il riaffacciarsi di un evento, o venga improvvisamente interrotto dove la drammaturgia richiede il colpo di scena. Il saggio di fine anno trasformato in spettacolo totale, creato dagli allievi stessi.
Raccontato così, si capisce che il quadro è più fantasia che realtà: anche se a ispirarlo sono scuole di musica dove qualche assaggio si è pure osato. Dove potremo trovare un’équipe di docenti disponibili a gestire un’operazione capace di impegnare collegialmente l’intero anno scolastico?
Ma se si crede che la musica possa essere vissuta come uno straordinario mezzo di espressione e di comunicazione, perché non sognare? Perché non credere che il sassolino buttato nel bel laghetto della tradizione scolastica non possa un giorno dar vita a un vivace zampillante ruscello?suo la faccenda, quando raccomanda il suo modo di educare i bambini: “non si permetta loro di essere autonomi finché non abbiamo organizzato entro di essi, come in uno stato, una costituzione e, coltivando la loro parte migliore con la migliore nostra, non abbiamo insediato in loro un guardiano e governatore simile a noi. Allora soltanto possiamo lasciarlo libero”. Parola di Platone. E in un altro suo
libro: “La cosa più importante è che mai nessuno sia senza un capo, che sempre viva
con gli occhi a lui e da lui si faccia guidare anche nelle minime cose”. Guai ad agire in
proprio: “Dalla vita degli esseri umani bisogna strappare l’insubordinazione”. Se
Platone merita fra noi di essere ricordato, è perché ha saputo trasferire i suoi superbi
principi anche sul terreno umile dell’educazione musicale. O sì, “ai bambini sia pure permesso – scrive – di cantare, ma a una precisa condizione: che a decidere quale possa essere la musica degna sia il parere concorde di un consesso di canuti
sapienti”. Che sia ancora vivo lo spirito del filosofo in qualche aula dei nostri Conservatori?

C. Delfrati. Musica per i disadattati

Il cinema rilancia periodicamente il tema che appartiene alla nozione comune, anche se non sempre alla nozione del dirigente scolastico: la forza educatrice del far musica. Soprattutto del far musica insieme, dove non è solo la carica emozionale della musica ma il fatto di interagire con gli
altri, a trasformare accozzaglie di individui ribelli e indisciplinati in piccole comunità costruttive e solidali. Il più recente della serie, dopo La musica nel cuore di August Rush o Les choristes di Christophe Barratier, è stato La mélodie di Rachid Hami. Ma i documenti risalgono a ben prima dell’epoca del cinema, come la relazione del funzionario mandato a ispezionare la neonata Scuola Civica di Musica di Milano: “Quanti delitti non si eviterebbero istituendo le Società corali di
temperanza?” Oggi sono numerose le iniziative di utilizzo moralizzante della musica, come il coro adulto del carcere di Bologna o quello dei minori che non solo cantano ma inventano le proprie
canzoni. Al nostro tempo la punta di diamante, ben nota, è El Sistema, l’esemplare iniziativa dell’ex ministro venezuelano Abreu, che poneva la musica al cuore dei progetti per il recupero dei
giovani degli ambienti degradati di Caracas. Non si sa che Abreu fu preceduto proprio nel nostro paese da una donna dai natali illustri: Enrichetta Chiaraviglio Giolitti: figlia del ministro Giolitti, cent’anni fa ospitava in una nave asilo gli scugnizzi (nel linguaggio ufficiale i “pericolati e pericolanti”), prima di essere restituiti a una vita sana e dignitosa. Le sue parole ci sono arrivate, sorprendentemente attuali: alle leggi della musica “si obbedisce perché l’offesa di essa ci offende; si obbedisce per imposizione della nostra volontà e non per una costrizione dall’esterno, come piace ai bigotti della disciplina. Se la nostra scuola non avesse tanta diffidenza per le preferenze dei giovani, il canto non sarebbe finora rimasto tra le materie secondarie e trascurabili, ma avrebbe trovato da molto tempo nelle scuole di cultura il posto che le compete”.suo la faccenda, quando raccomanda il suo modo di educare i bambini: “non si permetta loro di essere autonomi finché non abbiamo organizzato entro di essi, come in uno stato, una costituzione e, coltivando la loro parte migliore con la migliore nostra, non abbiamo insediato in loro un guardiano e governatore simile a noi. Allora soltanto possiamo lasciarlo libero”. Parola di Platone. E in un altro suo libro: “La cosa più importante è che mai nessuno sia senza un capo, che sempre viva con gli occhi a lui e da lui si faccia guidare anche nelle minime cose”. Guai ad agire in proprio: “Dalla vita degli esseri umani bisogna strappare l’insubordinazione”. Se
Platone merita fra noi di essere ricordato, è perché ha saputo trasferire i suoi superbi
principi anche sul terreno umile dell’educazione musicale. O sì, “ai bambini sia pure permesso – scrive – di cantare, ma a una precisa condizione: che a decidere quale possa essere la musica degna sia il parere concorde di un consesso di canuti
sapienti”. Che sia ancora vivo lo spirito del filosofo in qualche aula dei nostri Conservatori?

C. Delfrati. Il suono disturba?

Una sala d’attesa, aperta su una strada trafficata; due bimbi seduti agli angoli di una cassapanca, che scoprono, con i talloni, la varietà di suono prodotta sulle fiancate; parte un semplice dialogo musicale. L’intervento delle mamme è immediato: “Basta! Disturbate la gente!”. Una delle due cava dalla borsa fogli bianchi e pennarelli: “Mettetevi lì a disegnare”. Dalla strada giungono i rumori esasperanti del traffico. Ma il suono del bambino “disturba”. E’ forse perché il suono disturba e il disegno no, che il bambino si sente sempre incoraggiato quando si esprime con i pennarelli e con le tempere, e represso quando tenta di esprimersi con i suoni? L’educazione musicale del bambino parte quando s’inverte questa tendenza.

C. Delfrati. Gridare all'unisono

Lo strumento musicale occupa oggi nelle scuole medie uno spazio nemmeno immaginato dai docenti di un tempo. Tanto da aver occupato quasi interamente l’angolo una volta dedicato solo al canto. Le cose non vanno meglio per il canto nella scuola primaria. Nella stessa sede ministeriale si è consapevoli che lì non si canta, o si canta troppo poco, perché l’insegnante non è stata adeguatamente
formata, e non dà importanza al cantare. L’esperto di pedagogia musicale si affanna a cercare ragioni che ne motivino l’opportunità, anzi la necessità. Il canto serve al corpo, all’etica personale, all’affettività, alla socializzazione, e via continuando. Ma i bambini stònano! Protesta la maestra dimenticando che
stonati non si nasce, si diventa. La storia può venir in aiuto ai paladini della musica, come nel modo singolare raccontato da Tito Livio, lo storico romano. Nella battaglia di Zama che vide la sconfitta di Annibale, “ci furono aspetti che sembra banale raccontare, ma furono molto importanti al momento dell’azione. Il grido di guerra dei Romani era più possente e terrificante perché era all’unisono, mentre le grida dei Cartaginesi erano discordi”. I Romani non conoscevano la polifonia, che a noi sembrerebbe in grado di caricare un guerriero anche più del canto omòfono. Allora sentire l’intero esercito romano
che esplode cantando come una sola voce i segnali di battaglia, doveva fornire al nemico il senso di un’organizzazione invincibile. Una volta anche le guerre servivano a dar valore alla musica. Oggi che le battaglie non ci piacciono più ci restano gli stadi di calcio dove incitare a gran voce sola chi sta sul campo e sopraffare gli avversari sugli spalti. Non sarà meglio imparare a cantare nei luoghi deputati, intonando come si deve e sia pure all’unisono?

C. Delfrati. La malinconia del saggio

Nella piccola ma orgogliosa Scuola di Musica di *** tutto è pronto per il Gran Giorno. L’emozione già fa vibrare allievi, famiglie, docenti, anche i rivali, che sembrano solo aspettare il momento di
cogliere in fallo il tuo pupillo su quegli odiosi gruppi irregolari sadicamente collocati dal compositore alla fine della cadenza. Il Giorno finalmente arriva. Nella saletta il silenzio glaciale è rotto dall’applauso liberatorio che accoglie la presentatrice in Ralph Lauren blu scuro. E a uno a uno, illuminati dal faro fino al centro del palco, sfilano gli alunni. Nelle prime file i relativi famigliari si tengono pronti a scattare già sulle ultime note con l’irruenza del centometrista; pronti a lasciare gli scranni ai famigliari dell’allievo successivo, e ritirarsi ad aspettare nel foyer il loro campione. Così continua da mane a sera, con un flusso cronometrico di ingressi-sedute plaudenti-uscite orgogliose, il rito del Saggio Finale. La narrazione è un po’ caricata. I colleghi di un maestro sanno
spesso apprezzare i risultati del vicino d’aula; i genitori si fermano volentieri ad ascoltare le performance degli altri allievi; e questi non vedono l’ora che arrivi il giorno fatale. D’altra parte non riusciremmo a immaginare una scuola di musica, grande o piccola, che non organizzi il suo bel saggio finale, con relativa sfilata degli allievi. È fisiologico, per la vita stessa di una scuola di musica. È una verifica pubblica dei livelli raggiunti, è uno stimolo all’impegno, è un’educazione ad affrontare il pubblico, è altre cose ancora. Eppure non sempre un saggio, almeno nelle scuole più piccole, riesce a togliersi di dosso quell’immagine un poco rétro, quei colori un po’ scialbi, quel velo di malinconia che si sente quando si sta pronti a perdonare anche il passaggio sbagliato o dimenticato. Ma esistono alternative al saggio? Qualche scuola ci ha provato. Vale la pena scoprire come ha fatto, in un altro Ritaglio.

C. Delfrati. Saggio o spettacolo?

In ogni istituto musicale, dal grande conservatorio alla piccola scuola di paese, l’anno scolastico si chiude con il rito che conosciamo: il saggio degli allievi. A uno a uno i piccoli o grandi strumentisti sfilano davanti al pubblico dei famigliari, per mostrare alla cittadinanza quanto sono bravi; o quanto brava è la Scuola, che
riesce a far apprendere la magica abilità di ridar vita alla pagina pentagrammata. Tutto si svolge in modo scontato: si comincia con i principianti e si finisce con gli esperti. Ecco però una scuola proporci un saggio
diverso. Anzi, non un saggio, ma un vero e proprio spettacolo. Gli allievi hanno inventato una storia e la recitano su un palcoscenico, alternando le battute dei dialoghi con l’esecuzione dei brani sul proprio strumento. La musica non è più vissuta solo per quello che dà all’allievo come valore e come piacere; acquista un significato e un valore nuovi: diventa la colonna sonora capace aggiungere senso allo spettacolo – per chi suona prima che per chi ascolta. Quanto può allargarsi nell’allievo la comprensione dei “poteri
semantici” della musica se la si fa parlare; se quello che dicono le parole sceniche viene contrappuntato dalle parole musicali. L’alunno scopre come la musica sa creare atmosfere, caratterizzare il personaggio
della storia, anticipare una situazione, e così via. Può anche dettare le sue specifiche leggi alle leggi della parola: per esempio proporsi come leitmotiv, o come variazione. Sparisce l’ansia del docente davanti al
principiante che fatica a far progressi: perché anche al più refrattario c’è sempre la possibilità di affidare il frammento facile, che non potrebbe trovare spazio in un saggio blasonato. Va da sé che un risultato del genere richiede una scuola che fin dall’inizio dell’anno scolastico sappia raccogliere la sfida. E se non l’utopia di una scuola intera, anche semplicemente la sperimentazione di questo o quel docente, con il piccolo manipolo dei suoi musicisti attori.

C. Delfrati. Lui e lei

Il conferenziere dalle buone maniere inizia la sua relazione con “Signore e signori” – sempre che il pubblico non sia formato solo da babbi o solo da mamme. Ma quando il genere è misto? Ancora la buona educazione vuole che si dica “gli amici e le amiche”, “i professori e le professoresse”, “gli uomini e le donne”.  Credo però che nella lingua l’encomiabile aspirazione a una parità fra i sessi si risolva in una frustrante illusione. Perché la nostra grammatica, come quella di molti altri paesi, è radicalmente maschilista; vuole per esempio che si dica: “Manrico,  Leonora, Violetta, Aida e Gilda sono andati incontro alla morte”, non “andate” (anche se le femmine sono quattro e il maschio è uno), e tanto meno “andato e andate”. Nel negozio di animali vedo scritto “i cani e i gatti”, non “i cani e le cagne, i gatti e le gatte”. Giusto le zanzare, le mosche, le zecche e le vespe possono andar fiere della loro femminilità grammaticale. Nessuno gliela insidierà dicendo o scrivendo “le zanzare e i zanzari” ecc. ecc.  Minuscola pungente rivalsa del femminile. Ma non è così dappertutto. Checché uno ne pensi dei nostri amici (e amiche) britannici (e britanniche), la loro grammatica è unisex, con rare eccezioni, che sempre più quelli (e quelle) cercano di eliminare, dicendo per esempio she-he (lei-lui) quando si usa un pronome singolare. Per non parlare di quell’americana che scrive saggi dove alterna a caso she e he. Un capriccio? Sarà. Ma a pensarci bene perché non copiarle l’idea? (Copiamo tante cose dagli americani – e americane). Però alla grande, com’è costume di noi mediterranei (e mediterranee). Basta con “i bambini e le bambine”, “i pianisti e le pianiste”, “i dottori e le dottoresse”! Proponiamo che sia adottata per legge una convenzione grammaticale “biennale”: negli anni dispari si usa il maschile, in quelli pari il femminile (o viceversa). Approvano tante riforme inutili i senatori (e le senatrici), perché non dovrebbero approvare questa utilissima riforma della grammatica?

(P.s. Lo scrivo io prima di vedermelo rinfacciato: si è notato che a parte l’inevitabile “signore e signori”, ogni altra coppia comincia sempre col maschile? Gravissima ulteriore questione, da sottoporre agli esperti di galateo gender).

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